I meccanismi di difesa psicologica rappresentano uno dei pilastri più affascinanti della psicoanalisi e delle teorie psicologiche moderne.
Concepiti inizialmente da Sigmund Freud e successivamente sviluppati dalla figlia Anna Freud, questi processi inconsci operano come strategie di protezione che l’individuo adotta per schermare emozioni e, più in generale, contenuti psichici sconvenienti, difficili da gestire ed in grado di minare la stabilità interiore.
Lavorano letteralmente come scudi per preservare l’equilibrio psicologico.
Come per quasi tutte le cose nel mondo duale, però, il contraltare sta nel fatto che, se cristallizzano in noi fino a diventare dei muri inamovibili di cemento armato, non faranno altro che bloccare le possibilità di crescita e l’accesso a memorie dolorose che invece meriterebbero di essere recuperate, integrate e rielaborate.
In questo articolo esploreremo cosa sono e quali sono i meccanismi di difesa, le loro tipologie, la differenza tra i meccanismi primari e quelli secondari, dando spazio anche alle difese tipiche del profilo borderline di personalità.
Nella seconda metà entreremo nei dettagli dei principali meccanismi di difesa e anche nelle modalità terapeutiche di lavoro con un cosiddetto paziente ad alta resistenza grazie ad un protocollo basato su 9 punti specifici.
Meccanismi di difesa: definizione e come ci proteggono
I meccanismi di difesa sono processi psicologici automatici e inconsci che l’individuo utilizza per gestire situazioni stressanti, pulsioni inconfessabili, parti deboli, ferite interiori o pensieri che per una serie di ragioni non possono avere diritto di cittadinanza dentro di sé.
Questi possono attenuare l’impatto di ansia, dolore emotivo o conflitti interni, spesso distorcendo la realtà per rendere le esperienze più tollerabili.
Anche se i meccanismi di difesa sono spesso utili per contenere l’angoscia a breve termine e consentire una certa funzionalità quotidiana, un loro uso rigido o protratto nel tempo può ostacolare la crescita personale e la consapevolezza, impedendo un faccia a faccia autentico con le proprie emozioni e difficoltà più recondite.
I meccanismi di difesa secondo Freud
I meccanismi di difesa sono stati concettualizzati per la prima volta da Sigmund Freud come strategie che l’Io (Ego) sfrutta per proteggersi dall’ansia che scaturisce dai conflitti tra gli impulsi dell’Es (l’insieme di istinti e desideri inconsci) e le rigide richieste del Super-io (la coscienza morale interiorizzata).
Freud osservò che queste difese operano a livello inconscio per permettere alla mente di affrontare tensioni emotive e dissidi interni. Tra i principali meccanismi descritti da Freud troviamo la repressione, la proiezione e la razionalizzazione, che vedremo nel dettaglio tra poco.
In un secondo momento, sua figlia Anna Freud sviluppò ulteriormente la teoria, catalogando e descrivendo in dettaglio molti altri meccanismi di difesa, rendendoli uno strumento chiave per comprendere il funzionamento psichico e lo stesso comportamento umano.
Meccanismi di difesa, quali sono
Dopo aver visto la definizione, passiamo ad approfondire quali sono i meccanismi di difesa partendo da un elenco di quelli più comuni.
La maggior parte di questi verrà successivamente trattata nel dettaglio in un paragrafo dedicato:
- Repressione. Consiste nel rimuovere pensieri o ricordi inaccettabili dalla consapevolezza cosciente.
- Proiezione. L’individuo attribuisce agli altri emozioni, dinamiche, pulsioni, pensieri e, più in generale, istanze psichiche che non riesce ad accettare in sé stesso.
- Razionalizzazione. Si creano giustificazioni apparentemente logiche per comportamenti che in realtà derivano da motivazioni inconsce.
- Sublimazione. Meccanismo di difesa secondo cui gli impulsi indesiderati vengono trasformati in attività socialmente accettabili quali l’arte nelle sue varie forme, la divulgazione o attività sportive più o meno agonistiche.
- Negazione. La realtà di un fatto spiacevole viene rifiutata in toto per evitare di contattare l’angoscia che emergerebbe in modo inevitabile.
- Annullamento retroattivo. Si compiono azioni o si manifestano pensieri per tentare di sovrascrivere emozioni o comportamenti indesiderati del passato.
- Acting out. Comportamenti impulsivi o drammatici vengono messi in atto per scaricare tensioni interne tagliando completamente fuori il significato profondo dell’emozione.
Vediamo anche una tabella per aiutarci a comprendere come effettivamente i meccanismi di difesa possano venire agiti oppure tradursi in specifici pensieri.
Meccanismo di Difesa | Descrizione | Esempio pratico |
---|---|---|
Repressione | Eliminazione di memorie spiacevoli dal campo della coscienza | Reprimere il ricordo di un trauma infantile |
Proiezione | Trasferire sugli altri le parti di sé percepite come inaccettabili | Una persona che nutre molta rabbia repressa accusa gli altri di avere atteggiamenti ostili |
Razionalizzazione | Formulare una spiegazione mentale ed accettabile per una situazione innescata da dinamiche inconsce | “Non mi è stata offerta quella promozione perché il capo fa sempre i soliti favoritismi” |
Sublimazione | Trasformazione di impulsi o emozioni potenzialmente distruttive o inaccettabili in attività positive e con utilità sociale | Convertire l’ansia o il disagio in produttività artistica |
Negazione | Rifiuto di un pezzo di realtà | Non accettare la gravità di una malattia e far finta che non esista per niente |
È bene sempre sottolineare un concetto cardine: questi meccanismi, pur offrendo sollievo nell’immediatezza, possono avere un impatto significativo sul benessere psicologico a medio-lungo termine se utilizzati in modo rigido o eccessivo.
La loro esistenza tiene, infatti, la persona lontana da un suo contenuto psichico che invece andrebbe recuperato, riconosciuto, rielaborato adeguatamente per riuscire a tollerarlo e, infine, reintegrato.
Meccanismi di difesa primari e secondari
I meccanismi di difesa possono essere suddivisi in due categorie principali: primari (detti anche primitivi) e secondari (altrimenti detti maturi), in funzione del loro livello di complessità e del grado di adattamento che offrono.
I meccanismi di difesa primari, come la scissione e la proiezione, si manifestano nelle prime fasi dello sviluppo e sono spesso utilizzati per proteggere il bambino da emozioni troppo intense o da una realtà percepita come minacciosa. Questi meccanismi tendono ad essere più arcaici e meno adattivi, portando ad una visione distorta o semplificata della realtà. Ad esempio, nella scissione le persone o gli eventi vengono percepiti come totalmente “buoni” o “cattivi”, eliminando totalmente le sfumature intermedie e semplificando così il lavoro mentale.
I meccanismi di difesa secondari, come la razionalizzazione, la sublimazione e la repressione, si sviluppano in età più avanzata e consentono un livello di adattamento maggiore, permettendo all’individuo di gestire meglio gli impulsi e le complesse sfide della vita. Questi automatismi agiscono filtrando e riorganizzando pensieri ed emozioni, spesso rendendo più tollerabili situazioni difficili che altrimenti metterebbero la persona faccia a faccia con picchi emotivi che potrebbero rivelarsi travolgenti.
Meccanismi di difesa psicotici
I meccanismi di difesa psicotici sono modalità di funzionamento della mente che si attivano quando la realtà diventa insopportabilmente minacciosa o confusa, spesso in condizioni di grave stress oppure entro il perimetro di disturbi patologici come le psicosi.
Questi meccanismi operano in modo tale da distorcere radicalmente la percezione della realtà, al punto da rendere difficile per l’individuo distinguere tra ciò che è reale e ciò che è frutto del proprio mondo interno.
Tra i principali troviamo la negazione delirante o delirio di negazione, che trova la sua espressione più estrema nella sindrome di Cotard, un raro disturbo psichiatrico caratterizzato da false convinzioni di tipo nichilistico o ipocondriaco.
Le persone affette credono, in modo delirante, di essere morte, di non esistere, di aver perso tutti gli organi interni o di essere prive di sangue o anima. In alcuni casi estremi, il paziente può anche negare in toto la realtà del mondo esterno.
Questa condizione è stata descritta per la prima volta nel 1880 dallo psichiatra francese Jules Cotard. Si osserva spesso in contesti di gravi depressioni, psicosi o disturbi neurologici (ad esempio dopo lesioni cerebrali).
Un altro caso tipico è rappresentato dalle allucinazioni, che emergono quando la mente, incapace di tollerare intense emozioni o conflitti interni, crea una realtà alternativa per gestire l’angoscia.
L’allucinazione può assumere 5 declinazioni principali:
- Voci accusatorie o critiche. Un individuo che prova un senso di colpa insopportabile potrebbe “sentire” voci che lo accusano o lo giudicano. In questo caso, l’allucinazione esternalizza i sentimenti di autocritica, rendendoli più tollerabili perché percepiti come provenienti da una fonte esterna.
- Visioni protettive o salvifiche. Una persona che vive un’angoscia schiacciante potrebbe vedere figure divine o protettive, come angeli o santi, che offrono conforto. Queste allucinazioni possono servire a ridurre l’ansia e dare un senso di protezione in un momento di crisi estrema.
- Voci persecutorie. Un soggetto che prova intensa paura o paranoia potrebbe sentire voci di “nemici” o “spie” che tramano contro di lui. Questo può riflettere una proiezione del proprio timore che alberga nell’inconscio, trasformandolo in una minaccia esterna più concreta e gestibile.
- Dialoghi interni esternalizzati. Una persona in conflitto interno tra due desideri opposti potrebbe sentire voci che rappresentano ciascun lato del conflitto, esternalizzando così un dilemma che è in realtà intrapsichico.
- Allucinazioni visive catastrofiche. Un individuo sopraffatto da sentimenti di impotenza o perdita potrebbe “vedere” immagini di distruzione, come incendi o disastri naturali. Queste allucinazioni simbolizzano la percezione interna di un collasso emotivo o psicologico.
In ciascuno di questi casi, l’allucinazione permette al soggetto di proiettare o rielaborare emozioni o conflitti insopportabili, ma al prezzo di un distacco significativo dalla realtà. Questo rende evidente l’estrema vulnerabilità e la necessità di un intervento terapeutico mirato per affrontare la sofferenza sottostante e ristabilire un contatto con il mondo reale.
Meccanismi di difesa borderline: quando l’Io arriva a scindersi per difesa
I meccanismi di difesa caratteristici delle persone con disturbo borderline di personalità riflettono la loro difficoltà nel modulare le emozioni e nel mantenere una visione stabile di sé e degli altri.
Tra questi, la scissione dell’Io è particolarmente frequente perché porta l’individuo a percepire il prossimo e le situazioni come totalmente “buone” o “cattive”, elidendo in toto le sfumature intermedie. In pratica, diventa tutto polarizzato verso gli estremi, bianco o nero, che poi tendono a proporsi in maniera alternata ed incompatibile tra loro.
Ad esempio, uno studente può oscillare tra sentimenti di ammirazione e di disprezzo nei confronti di una sua insegnante. A seconda del contesto specifico, a volte la percepisce come una persona intelligente e autorevole, mentre in altre occasioni se la rappresenta come inferiore, ignorante ed esautorata.
Questa difesa, considerata una delle principali, aiuta a semplificare e distorcere la percezione del sé e degli altri, creando una visione polarizzata e dicotomica della realtà. Una delle caratteristiche distintive della scissione dell’io è la difficoltà ad integrare esperienze ed emozioni contrastanti, con il risultato che la persona sperimenta sé stessa, gli altri o le situazioni in termini estremi ed assoluti.
Un altro meccanismo di difesa comune è l’identificazione proiettiva, in cui emozioni, pensieri, desideri, pulsioni e parti di sé inaccettabili vengono inconsciamente traslate su un’altra persona, che viene poi indotta a “rispondere” concordemente alle aspettative proiettate.
L’elemento che differenzia questo meccanismo rispetto alla proiezione pura è che la persona “proiettante” non si limita a vedere queste caratteristiche nell’altro, ma spesso agisce e comunica in modi che influenzano l’altro affinché adotti effettivamente i comportamenti o le emozioni proiettate.
L’identificazione proiettiva non si limita quindi ad un processo di semplice proiezione (cioè l’attribuzione ad altri di ciò che non si accetta in sé), ma implica anche un’interazione attiva che condiziona il soggetto ricevente.
L’uso reiterato di questi meccanismi favorisce una spiccata precarietà emotiva e difficoltà nelle interazioni sociali, contribuendo al vissuto di instabilità che caratterizza il disturbo borderline.
I meccanismi di difesa del narcisista: come protegge un’immagine di sé grandiosa e impenetrabile
I meccanismi di difesa tipici delle persone con tratti narcisistici sono degli alleati utilizzati per arroccarsi intorno all’immagine magnificata che hanno di loro stesse, schivando tutti i sentimenti di vergogna, vulnerabilità o inadeguatezza.
Tra i meccanismi più comuni c’è la negazione, che permette al narcisista di rifiutare qualsiasi critica o feedback che possa minare la propria autostima, spesso minimizzando le opinioni degli altri o svalutando chi lo critica.
Un altro meccanismo fondamentale è la proiezione, per cui il narcisista attribuisce ad altri difetti o emozioni che non accetta in sé stesso, ad esempio accusando il prossimo di essere egoista o insensibile mentre è lui stesso ad agire in modo analogo.
La razionalizzazione è un’altra strategia frequentemente usata per giustificare i propri comportamenti o atteggiamenti, mantenendo intatta la convinzione di superiorità.
Da ultimo, il disprezzo e la svalutazione degli altri fanno buon gioco nel mantenere la propria posizione sul piedistallo e per ridurre le possibili insidie all’autostima.
Questi meccanismi, pur offrendo una protezione temporanea all’ego fragile del narcisista, non fanno altro che incentivare i conflitti nelle relazioni e impedirgli una ripresa dell’introspezione e della consapevolezza.
Meccanismi di difesa, elenco ed esempi pratici
Questi processi inconsci possono manifestarsi con declinazioni distinte, permettendo di affrontare la realtà in modo distorto per ridurre il disagio emotivo.
In questa lunga sezione vedremo nel dettaglio un elenco dei meccanismi di difesa più comuni, accompagnato da esempi pratici per comprendere meglio che modalità assumono nella vita quotidiana.
Conoscere questi meccanismi non solo ci aiuta a riconoscerli in noi stessi, ma offre anche l’opportunità di affrontarli consapevolmente e di rientrare in contatto con le istanze psichiche che si nascondono dietro, rendendoli superflui.
Come dico sempre, la consapevolezza è tutto ed anche il primo tassello irrinunciabile del lavoro interiore.
La repressione in psicologia
La repressione è uno dei meccanismi di difesa più noti in psicologia, introdotto da Sigmund Freud per descrivere il processo mediante il quale la mente allontana o seppellisce pensieri, ricordi o impulsi inaccettabili nel subconscio, rendendoli inaccessibili alla coscienza.
Ciò avviene per evitare l’ansia, il dolore o il conflitto che questi contenuti potrebbero generare se facessero capolino a livello conscio.
Un esempio classico è un individuo che ha subito un trauma psicologico e non ricorda l’evento perché la mente lo reprime per proteggerlo dal rischio di rivivere quel dolore.
Sebbene la repressione possa essere utile come difesa temporanea, nel lungo periodo può dare origine a sintomi psicosomatici come inquietudine, tensioni di varia natura o comportamenti influenzati a livello inconscio dai ricordi soppressi.
La terapia psicologica spesso si propone di portare alla luce contenuti repressi per consentire al paziente di elaborarli consapevolmente, promuovendo la guarigione ed il risanamento delle fratture interiori.
La rimozione in psicologia
La rimozione è un meccanismo di difesa inconscio che consiste nell’escludere e rimuovere immagini, ferite o memorie emozionali che generano ansia, disagio o senso di colpa, impedendo loro di raggiungere la consapevolezza.
Questo meccanismo protegge l’individuo da stati emotivi scomodi o destabilizzanti, ma la carica psichica rimossa può trovare la sua specifica via di scarico nel corpo e manifestarsi in maniera criptica nella forma di uno o più sintomi psicosomatici senza una chiara spiegazione medica (i cosiddetti Medically Unexplained Symptoms, o MUS).
La rimozione è centrale nella teoria psicoanalitica di Freud, che ha identificato questo processo come una delle principali cause del disagio psicologico, in genere affrontabile portando i contenuti rimossi a livello conscio nel contesto terapeutico.
Repressione e rimozione sotto la lente: quali differenze?
Secondo Freud, sia i contenuti rimossi che quelli repressi fanno parte del complesso sistema della mente inconscia, ma sussistono delle differenze non trascurabili tra le due dinamiche.
Anche se si riferiscono entrambi a meccanismi di difesa che schermano determinati contenuti alla consapevolezza, la vera distinzione sta nell’accessibilità di questi contenuti alla coscienza e nel tipo di processo di evitamento coinvolto.
I contenuti rimossi non scompaiono dal tessuto psichico, ma vengono relegati nell’inconscio e continuano ad esercitare una pressione interna, manifestandosi attraverso sintomi nevrotici, sogni o atti mancati (lapsus freudiani). La rimozione, quindi, impedisce l’accesso al ricordo doloroso, ma non ne elimina le sue implicazioni psicologiche.
Un esempio classico di contenuto rimosso potrebbe essere un trauma infantile, come un abuso emotivo o fisico, che viene dimenticato (rimosso) e che, in età adulta, potrebbe riemergere sotto forma di sogni ricorrenti, paura inspiegabile, difficoltà relazionali, disturbi d’ansia o sintomi fisici senza che il soggetto ne sia minimamente consapevole.
Mentre i contenuti rimossi sono esclusi totalmente dalla coscienza, i contenuti repressi potrebbero essere almeno parzialmente noti al soggetto. In ogni caso, questo si sforza attivamente di non pensarci o di non affrontarli a livello cosciente proprio perché gli susciterebbero ansia o disagio.
Per esempio, una persona potrebbe essere consapevole di provare rabbia nei confronti di un genitore o del partner, ma evita di affrontare questi sentimenti in maniera conscia per evitare conflitti interni o per preservare l’immagine ideale dell’altro.
Le differenze chiave tra rimozione e repressione sono quindi sostanzialmente tre:
- Consapevolezza. I contenuti rimossi sono totalmente inconsci, mentre i contenuti repressi possono essere almeno parzialmente noti, pur essendo attivamente tenuti lontani dal campo della consapevolezza.
- Origine. La rimozione è un meccanismo più profondo e originario che Freud collegava spesso ai primi anni di vita, mentre la repressione può verificarsi in qualsiasi momento e agisce più a livello cosciente.
- Esito finale. Entrambi i processi possono portare a sintomi nevrotici ma i contenuti rimossi, essendo completamente inconsci, hanno in genere effetti più profondi e difficili da identificare rispetto ai contenuti repressi.
La proiezione in psicologia: il trasferimento sugli altri di ciò che non sopportiamo in noi
La proiezione è un meccanismo di difesa psicologica di cui ho già parlato approfonditamente in un altro articolo dedicato e, in parte, anche quando ho trattato il concetto di ombra secondo Jung e le 5 motivazioni principali che possono celarsi dietro alla rimozione.
Questo processo avviene in modo inconscio e serve a ridurre l’angoscia o il malessere derivanti dal confronto con aspetti personali considerati inaccettabili, pericolosi o in conflitto con l’immagine di sé.
Se sposto quel lato inaccettabile su un’altra persona, illusoriamente non lo vedrò più dentro di me e crederò che non sia mio.
Per esempio, una persona che prova sentimenti di invidia potrebbe accusare gli altri di essere invidiosi di lei, trasferendo all’esterno un’emozione che non vuole riconoscere. La proiezione si manifesta spesso nelle relazioni interpersonali e, a maggior ragione, in un rapporto di coppia, dove può causare fraintendimenti, conflitti e dinamiche di difesa reciproca.
La proiezione rende conto di una verità sostanziale: gli altri riflettono le nostre ombre, le incarnano e rendono più veloce la nostra crescita. Senza gli altri, nel vuoto e nella solitudine spinta, perderemmo questa preziosa opportunità.
La negazione in psicologia: il muro invisibile edificato dalla nostra mente
La negazione è un meccanismo di difesa attraverso cui una persona si rifiuta di accettare una realtà dolorosa o difficile da affrontare, mantenendo una percezione alterata della situazione per ridurre l’angoscia o il fastidio.
Questo processo è spesso osservato nelle prime fasi dell’elaborazione del lutto, quando una persona deve fare i conti con la perdita di una persona cara.
In questi momenti, la mente può “bloccare” la consapevolezza della morte, spingendo l’individuo a comportarsi come se nulla fosse cambiato o a minimizzare l’impatto dell’evento.
Ad esempio, una persona potrebbe continuare a parlare con il defunto come se fosse ancora presente o evitare di affrontare la realtà del lutto, concentrandosi su altre attività per distogliere la mente dal cordoglio.
Il riconoscimento graduale della perdita, spesso con il supporto di un percorso terapeutico, è fondamentale per affrontare la disperazione e ricostruire un equilibrio interiore.
Alcuni esempi di sublimazione nella vita quotidiana
Nella nostra psicologia, la sublimazione aiuta a canalizzare energie e desideri verso obiettivi che arricchiscono sia l’individuo che la comunità.
Nella vita quotidiana, gli esempi di sublimazione sono numerosi: una persona con una forte tendenza all’aggressività può indirizzarla verso uno sport competitivo, come il pugilato o il sollevamento pesi, trovando un modo per mettere a terra parte di questa energia senza causare danni.
Allo stesso modo, chi esperisce un’intensa frustrazione o inquietudine può sublimare queste emozioni dedicandosi ad attività artistiche, come la pittura o la scrittura, che permettono di dare forma a sentimenti complessi e di elaborare stati d’animo profondi.
Anche l’impegno in attività di volontariato o in cause sociali può rappresentare una forma di sublimazione, dal momento che incanala desideri o conflitti personali verso un bene collettivo, migliorando il benessere sia proprio che altrui.
Questo meccanismo è considerato uno dei più adattivi e costruttivi perché offre una via di espressione creativa e utile alle emozioni ed energie psichiche più controverse.
La sublimazione dell’energia sessuale: la visione di Napoleon Hill come chiave del successo
L’energia sessuale è di gran lunga la più potente tra tutte quelle che si muovono nella nostra interiorità.
Come per le altre, anche l’energia sessuale può essere sublimata e canalizzata in attività produttive, artistiche, creative o professionali.
Napoleon Hill, nel suo celebre libro “Pensa e arricchisci te stesso”, parla di come l’energia sessuale, se sublimata, possa rivelarsi una forza straordinaria. Hill suggerisce come questa energia, quando non è espressa in modo diretto, possa essere trasformata in una potente forza motivazionale, capace di stimolare la creatività, la produttività, la concentrazione, il coraggio e la determinazione.
Secondo lui, le persone di successo sono quasi sempre in grado di convogliare questa energia in ambiti come il lavoro, la leadership, l’innovazione e le arti, piuttosto che lasciarla andare in attività puramente fisiche o autoindulgenti.
Questo processo avviene più facilmente dopo i 50 anni di età, quando nell’uomo l’energia sessuale inizia ad essere almeno in parte più gestibile. Per la stessa ragione, secondo lui, il successo stabile nel campo imprenditoriale o manageriale è più facile da raggiungere in età non più giovanissima.
La regressione in psicologia: quando il tornare più piccoli ci viene in soccorso
La regressione è un meccanismo di difesa che porta l’individuo a tornare (letteralmente, regredire) a comportamenti tipici di fasi di sviluppo precedenti per affrontare situazioni di stress, ansietà o conflitto.
Quando una persona si sente sopraffatta da circostanze che non riesce a gestire, può reagire adottando atteggiamenti infantili o meno maturi rispetto alla sua età e alle sue capacità.
Ad esempio, un adulto sotto una forte pressione potrebbe iniziare a comportarsi con impulsività, cercando conforto in abitudini infantili come abbracciare un oggetto od isolarsi emotivamente.
La regressione, se non riconosciuta e gestita adeguatamente, compromette la capacità di affrontare le sfide della vita in modo costruttivo ed adulto.
L’acting out in psicologia: quando l’azione serve a coprire l’emozione scomoda
L’acting out è un meccanismo di difesa attraverso il quale emozioni, desideri o conflitti inconsci vengono espressi mediante azioni, spesso impulsive e potenzialmente dannose, invece che affrontati o elaborati consapevolmente.
Questo comportamento si manifesta quando l’individuo agisce ciò che sente, piuttosto che verbalizzare o soffermarsi sulle proprie emozioni.
Un esempio classico di acting out può essere un adolescente che, per far fronte ad un senso di rifiuto o frustrazione, sfoga la sua rabbia con condotte ribelli o comportamenti rischiosi, come l’abuso di sostanze o l’aggressività.
Nelle relazioni interpersonali, una persona può reagire ad un senso di abbandono senza affrontare direttamente il problema, ma mettendo in atto comportamenti autodistruttivi o provocatori.
Come per gli altri meccanismi di difesa, l’acting out non risolve i conflitti sottostanti e può portare a conseguenze negative nel medio-lungo termine, danneggiando le relazioni interpersonali.
La razionalizzazione in psicologia: la maschera mentale che applichiamo per evitare il disagio
La razionalizzazione è un meccanismo di difesa che consiste nel fornire spiegazioni logiche, anche se spesso non veritiere, per giustificare comportamenti, pensieri o dinamiche emotive che altrimenti genererebbero disagio o senso di colpa.
Attraverso la razionalizzazione, l’individuo cerca di mascherare le vere motivazioni dietro alle proprie azioni, rendendole più accettabili sia a livello personale che sociale.
Ad esempio, una persona che non riesce ad ottenere un lavoro che desidera potrebbe convincersi di non averlo davvero voluto, sminuendo il valore dell’opportunità per ridurre la delusione percepita.
Esempi di razionalizzazione: come giustifichiamo i nostri comportamenti
Nella razionalizzazione la percezione della realtà viene ristrutturata, impacchettata e confezionata secondo modalità più morbide ed accettabili.
Questo processo consente all’individuo di mantenere un’immagine di sé coerente e positiva, mascherando motivazioni o impulsi sottostanti che potrebbero andare a destabilizzarla più o meno fortemente.
Un esempio comune di razionalizzazione è quello di uno studente che, dopo aver fallito un esame, afferma dentro di sé che “le domande dell’esame erano troppo complesse” o che “non valeva la pena studiare così tanto”, invece di riconoscere la propria mancanza di preparazione.
Un’altra casistica classica può riguardare una persona che viene rifiutata da un partner e giustifica l’accaduto dicendo: “In fondo, lui non era adatto a me, non stavamo bene insieme” o “Tanto tra di noi non avrebbe potuto funzionare”, per evitare di affrontare la ferita del rifiuto.
Analogamente alle altre difese psicologiche, prima o poi risulta utile andare a stanare le parti deboli, fragili o inconfessabili che si trovano dietro le quinte della coscienza. Un qualunque blocco di questa natura, analogamente a quanto visto per il blocco emotivo, deve essere affrontato per non trovarci sbarrata la strada del lavoro psicologico.
L’intellettualizzazione come meccanismo di difesa
Al pari della razionalizzazione, anche l’intellettualizzazione è un meccanismo di difesa psicologica che implica l’uso della ragione e della sfera mentale per evitare di tuffarsi in emozioni o situazioni scomode.
Vediamo però in breve quali sono le differenze tra le due:
- Razionalizzazione. Si incentra sulla giustificazione dei propri comportamenti, pensieri o sentimenti in modo che appaiano razionali, accettabili o socialmente condivisibili. La razionalizzazione tende a trovare “buone ragioni” che possano convincere sé stessi e gli altri, anche se sono distanti dalla realtà o dal nucleo emotivo del problema.
- Intellettualizzazione. In questo caso, l’individuo affronta situazioni emotivamente difficili concentrandosi sugli aspetti razionali, astratti o analitici della questione, piuttosto che sui sentimenti che questa provoca. È un meccanismo che sposta l’attenzione dalle emozioni all’elaborazione intellettuale, permettendo di mantenere un certo distacco emotivo. Per esempio, una persona che riceve una diagnosi di malattia grave potrebbe concentrarsi esclusivamente sulle statistiche e su tutti i dettagli medici pertinenti, ignorando o reprimendo il proprio stato d’animo e il bisogno di affrontare la paura o il dolore.
In sintesi, la razionalizzazione giustifica i comportamenti per renderli accettabili, mentre l’intellettualizzazione evita le emozioni concentrandosi sugli aspetti cognitivi di una situazione.
Idealizzare in psicologia: quando vediamo solo il bello di una persona
L’idealizzazione è un meccanismo di difesa che porta una persona a percepire qualcuno o qualcosa in modo eccessivamente positivo, attribuendo qualità perfette o straordinarie e ignorando deliberatamente i lati negativi o le imperfezioni.
È il classico processo che porta a “mettere l’altro su un piedistallo”.
Questa dinamica può manifestarsi in molte situazioni, come nelle relazioni amorose, nelle amicizie o persino nel rapporto con le figure che incarnano l’autorità.
Idealizzare serve sovente a ridurre angosce e timori, permettendo all’individuo di sentirsi più sicuro e protetto in una relazione o in una situazione che altrimenti potrebbe essere fonte di incertezza o minaccia.
In ogni caso, quando la realtà dei fatti manda in pezzi l’immagine idealizzata ecco che irrompono con prepotenza delusione, attacchi di rabbia o senso di tradimento, portando al crollo delle aspettative e, a volte, ad una brusca svalutazione della persona idealizzata.
Per il classico meccanismo della compensazione, tanto più forte era l’idealizzazione precedente, quanto più marcata sarà la rabbia, la svalutazione e la demolizione dell’immagine della persona nel momento in cui crolla tutto il castello di carte.
In terapia, l’idealizzazione viene esplorata per comprendere i bisogni e le insicurezze che l’hanno generata, favorendo un approccio più realistico e maturo alle relazioni e alle proprie percezioni.
La scissione in psicologia: la visione polarizzata che allontana il disagio
La scissione è un meccanismo di difesa che porta l’individuo a percepire sé stesso, gli altri o le situazioni in termini estremi, “tutto buono” o “tutto cattivo”, senza sfumature intermedie.
Il mondo fuori viene quindi diviso in poli opposti e inconciliabili.
Questo processo si verifica quando una persona non riesce ad integrare aspetti contrastanti di una realtà complessa, ricorrendo così ad una visione polarizzata per ridurre l’ansietà ed il dissidio interiore.
La scissione è molto comune nei disturbi di personalità, come il disturbo borderline, dove l’alternanza di idealizzazione e svalutazione degli altri può essere frequente e particolarmente destabilizzante.
Ad esempio, un amico o un partner può essere visto come perfetto e amorevole in un momento e, dopo una delusione o un conflitto, percepito come completamente ostile o indifferente.
La scissione limita la capacità di vedere il mondo in modo equilibrato, smantellando tutte le innumerevoli sfumature di grigio che invece ne costituiscono parte integrante.
La dissociazione come meccanismo di difesa psicologica: quando ci disconnettiamo da ciò che ci tormenta
La scissione non va confusa con la dissociazione, un altro meccanismo di difesa in cui una persona scollega un’esperienza, un’emozione o una memoria dalla propria coscienza, spesso come risposta a traumi intensi. Invece di dividere la realtà in poli opposti, la dissociazione rimuove dalla consapevolezza ciò che è intollerabile, creando una sorta di scissione funzionale tra diversi aspetti della mente.
La dissociazione si manifesta, quindi, come una perdita di flessibilità nelle funzioni mentali, con il conseguente sviluppo di distorsioni che influenzano la percezione, l’elaborazione delle esperienze ed il modo in cui attribuiamo significati emotivi a ciò che viviamo. Questo processo non fa che alterare profondamente la rappresentazione che abbiamo di noi stessi e del mondo circostante.
Il meccanismo può manifestarsi in vari gradi, da esperienze quotidiane lievi (es. “perdersi nei propri pensieri”) a disturbi dissociativi gravi (quale l’amnesia dissociativa o il disturbo dissociativo dell’identità).
Il distacco emotivo difensivo: una forma più lieve e mirata di disconnessione
Il distacco emotivo difensivo può essere considerato un meccanismo di difesa che, in certi casi, ha caratteristiche simili alla dissociazione, ma i due concetti non sono completamente sovrapponibili.
È una strategia psicologica in cui una persona si disconnette dalle proprie emozioni per proteggersi da situazioni o esperienze che percepisce come eccessivamente stressanti, minacciose, destabilizzanti o dolorose. Questo processo è spesso consapevole o semi-consapevole e tende ad essere circoscritto a specifiche situazioni.
Si manifesta come un senso di anestesia emotiva od indifferenza nei confronti di ciò che accade, configurandosi come una forma di protezione per evitare il dolore emotivo. Può essere temporaneo e situazionale (ad esempio, durante un conflitto o un lutto) oppure cronicizzarsi in risposta a traumi, delusioni profonde o esperienze di rifiuto.
Nella dissociazione, invece di “spegnere” solo le emozioni, si registra anche un distacco dalla realtà o da aspetti della coscienza, come i ricordi, le sensazioni corporee e lo stesso senso di identità.
La persona può sentirsi come se fosse un osservatore esterno di sé stessa (depersonalizzazione) o percepire l’ambiente come irreale (derealizzazione). Può includere amnesie o la frammentazione dell’identità nei casi più gravi, risultando in genere un meccanismo del tutto inconscio e più pervasivo rispetto al distacco emotivo.
Per riassumere, il distacco emotivo mira a “mettere da parte” i sentimenti dolorosi per affrontare una situazione difficile, mentre la dissociazione crea una separazione più radicale per proteggere la psiche da un sovraccarico intollerabile.
Sebbene questa strategia possa offrire una momentanea protezione, alla lunga può ostacolare le connessioni autentiche con sé stessi e con gli altri, portando ad una sensazione di vuoto o isolamento sempre più inaridente.
La formazione reattiva come meccanismo di difesa
La formazione reattiva è un meccanismo di difesa che si manifesta quando una persona cerca di contrastare desideri, pensieri o impulsi inaccettabili esprimendo comportamenti o atteggiamenti che si collocano agli antipodi.
La persona esprime quindi il contrario dei propri veri sentimenti, a volte anche in maniera plateale ed esagerata.
Questo processo avviene in modo inconscio e serve, ancora una volta, a proteggere l’individuo da stimoli che potrebbero causare forte destabilizzazione, vergogna o sentimenti di colpa.
Ad esempio, una persona che prova rabbia o risentimento verso un collega può, al contrario, comportarsi in modo eccessivamente gentile o accondiscendente nei suoi confronti, come forma di compensazione.
Parimenti un uomo che si percepisca debole nella sua mascolinità o nell’essere uomo in generale potrebbe adottare comportamenti marcatamente aggressivi ed incisivi.
Anche qui il rischio è sempre il medesimo, ovvero quello di reprimere emozioni autentiche, portando a comportamenti forzati o poco spontanei che, nel tempo, possono generare affaticamento interno o tensioni relazionali.
La compartimentazione in psicologia: la suddivisione delle emozioni che anestetizza il conflitto interiore
La compartimentazione è un meccanismo di difesa che consente ad una persona di separare pensieri, sentimenti o comportamenti contraddittori in compartimenti mentali distinti, evitando così il conflitto interno o la contraddizione che sorgerebbe dal doverli integrare.
In questo modo l’individuo ha la facoltà di agire in modi apparentemente incoerenti senza provare disagio o senso di colpa perché ogni compartimento della mente rimane isolato dagli altri.
Ad esempio, una persona si comporta in modo estremamente etico e rigoroso sul lavoro, mentre al di fuori di quell’ambito può adottare atteggiamenti moralmente discutibili senza avvertire alcuna contraddizione interna.
La compartimentazione si rivela valida nel breve termine per gestire situazioni complesse o stressanti, ma nel lungo periodo impedisce una visione integrata e coerente di sé stessi, contribuendo a sentimenti di dissonanza e confusione.
Un lavoro terapeutico mirato all’integrazione di queste parti scisse della personalità è la via d’elezione per aiutare l’individuo a tornare all’integrità dell’essere e a guarire le fratture interiori.
L’annullamento retroattivo: quando tentiamo di riscrivere il passato per gestire il presente
L’annullamento retroattivo è un meccanismo di difesa che consiste nel tentativo di cancellare o neutralizzare un pensiero, sentimento o azione percepita come inaccettabile o colpevole mediante un comportamento opposto o ritualizzato.
Questo meccanismo opera spesso in modo inconscio per ridurre il senso di colpa, l’agitazione o il malessere causati dall’impulso o azione originale.
È una sorta di oblazione, di offerta o rimedio che ci si illude possa avere valenza retroattiva e la capacità di sovrascrivere una parte del passato.
Ad esempio, una persona che ha espresso rabbia verso un amico potrebbe, successivamente, cercare di “annullare” il proprio comportamento con gesti eccessivamente gentili o scusandosi ripetutamente.
Nelle forme più patologiche, l’annullamento retroattivo si manifesta in rituali compulsivi, come avviene nel disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) dove il soggetto cerca di neutralizzare pensieri intrusivi o impulsi scomodi attraverso azioni ripetitive ed ossessive.
I meccanismi di difesa in psicologia: pro e contro
I meccanismi di difesa sono nati per evitare il contatto diretto con istanze della propria psiche che potrebbero causare un certo grado di destabilizzazione, se non addirittura dolore emotivo e angoscia.
Sono come una capsula che costruiamo intorno a ciò che sentiamo potrebbe darci fastidio, o la perla che viene creata intorno ad un granello di sabbia. Non potendo eliminare questo granello, lo rivestiamo per neutralizzarlo e smettere di sentirlo.
Non importa, tra l’altro, che il contatto eventuale con quel contenuto psichico possa o meno farci davvero del male. Se iniziamo a percepire che in effetti è così, agiremo interiormente di conseguenza.
Se da un lato, come abbiamo visto, molte difese psicologiche favoriscono un adattamento positivo alle varie situazioni e consentono all’Io di mantenere un equilibrio anche se spesso precario, la loro cristallizzazione e cronicizzazione può presentare rischi con cui prima o poi bisognerà fare i conti.
Meccanismi come la negazione o la scissione isolano la persona da una buona fetta della propria esperienza emotiva, portando a relazioni disfunzionali, conflitti irrisolti o disagio psicologico.
I pazienti ad alta resistenza: chi sono e quali sfide pongono
Secondo Allan Abbass, esperto di Psicoterapia Intensiva Dinamica Breve (in inglese Intensive Short-Term Dynamic Psychotherapy, ISTDP), un paziente ad alta resistenza è un individuo che, già dall’inizio del percorso terapeutico, manifesta un forte blocco o difficoltà nel contattare determinate parti di sé, impulsi o emozioni. La persona utilizza strategie inconsce per evitare il contatto con emozioni negate o divergenze interiori.
Questa resistenza non è una scelta consapevole, ma un meccanismo di difesa radicato che protegge il paziente dal tormento e dal malessere emotivo.
L’apertura al processo di introspezione e trasformazione presenta inevitabilmente parecchi attriti dal momento che il paziente distoglie costantemente il focus dalla propria esperienza interna, spesso utilizzando comportamenti come parlare in modo prolisso, spostare l’attenzione su problemi esterni o minimizzare le proprie angustie emotive.
Questa resistenza può derivare da molteplici fattori, tra cui la paura di affrontare determinate ferite interiori, esperienze passate di fallimento terapeutico o il bisogno di mantenere un controllo rigido (per quanto illusorio) sulla propria vita.
L’approccio della psicoterapia olistica in presenza di barriere di difesa
La psicoterapia olistica, con il suo approccio integrato, si rivela particolarmente efficace nel lavoro con questa tipologia di pazienti.
Partendo da una visione globale che considera corpo, mente, emozioni e anima come un’unità inscindibile, il metodo olistico aiuta a creare un ambiente di accoglienza e sicurezza, favorendo la fiducia reciproca e la motivazione al cambiamento.
Attraverso tecniche di dialogo con le diverse parti di sé di volta in volta considerate rilevanti (il cosiddetto chairwork o “lavoro con le sedie”), ma anche di introspezione diretta e di allenamento al contatto e riconoscimento dell’emozione nel momento presente, è possibile riconoscere gli introietti o le proiezioni, oltre ai meccanismi di difesa psicologica che il paziente mette in atto per proteggersi.
Non c’è mai giudizio, semplicemente bisogna imparare a stare con quello che c’è, senza rifiutarlo e senza introdurre dinamiche secondarie di negazione o repressione.
Collegando il vissuto del paziente al presente, si facilita un graduale scioglimento delle resistenze.
L’obiettivo finale è la promozione di un cambiamento autentico e duraturo, rispettando al contempo il ritmo e i bisogni unici di ciascun individuo.
Come affrontare la resistenza in terapia: i 9 punti fondamentali del lavoro
Prima di concludere, vediamo in concreto i 9 passi essenziali del lavoro quando ci si trova in presenza di barriere di difesa apparentemente invalicabili.
Per ottenere risultati efficaci in terapia con pazienti ad alta resistenza, è fondamentale riconoscere ed affrontare questa resistenza fin dalla prima seduta per evitare che possa agire nell’ombra per sabotare il percorso di trasformazione e guarigione.
Un approccio strutturato e consapevole consente al terapeuta olistico di:
- Identificare la resistenza al trattamento fin dal primo contatto con il paziente, osservando i segnali impliciti e le dinamiche di evitamento.
- Comprendere i fattori emotivi alla base della resistenza, spesso legati a paure inconsce o a conflitti irrisolti.
- Distinguere le diverse forme ed intensità della resistenza, per adattare l’intervento terapeutico in modo mirato.
- Riconoscere i segni dell’ansia espressa sul piano corporeo, quali tensioni muscolari, cambiamenti nella respirazione, microespressioni facciali o altri segnali somatici.
- Attivare e monitorare impulsi e sentimenti inconsci non elaborati per favorire un’integrazione profonda delle emozioni bloccate.
- Aiutare il paziente a mettere in discussione i propri comportamenti autolesionistici, punitivi o disfunzionali, radicati nel tempo e purtroppo difficili da abbandonare.
- Regolare l’ansia intensa quando le emozioni “scomode” vengono attivate, garantendo un ambiente sicuro per stare in contatto con il disagio emotivo.
- Mobilitare il desiderio inconscio del paziente di guarire, lavorando sulla motivazione profonda al cambiamento che è sempre presente anche se magari si trova sepolta sotto strati psichici sedimentati.
- Riconoscere i segnali dell’alleanza terapeutica inconscia, una potente forza di guarigione nonché elemento chiave per il successo del trattamento.
Individuando rapidamente i modelli di evitamento ed utilizzando interventi specifici mirati alla loro gestione, è possibile trasformare la resistenza in una risorsa per il cambiamento ed iniziare a mobilitare le energie di guarigione naturalmente presenti all’interno della persona.
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Medico psicoterapeuta
Sono iscritta all’Albo Professionale dei Medici dall’anno 2008 ed esercito la professione di Psicoterapeuta sia per mezzo di sedute online (via Zoom o Skype) che in presenza nel mio Studio privato vicino al centro storico di Novara.
Perché rivolgersi ad un medico psicoterapeuta?
Grazie alla sua duplice formazione medica e psicoterapeutica, un medico psicoterapeuta è in grado di valutare il paziente non solo dal punto di vista meramente psicologico, ma anche di considerare eventuali fattori biologici, medici e farmacologici che possono influenzare il disturbo, conflitto interiore o disagio portato dal paziente.
Questo permette una presa in carico olistica, in cui si possono trattare problematiche emotive, psichiche e fisiche in modo sinergico, personalizzando il percorso terapeutico per ottenere risultati più efficaci e duraturi.
I vantaggi tangibili per il paziente consistono in tempi mediamente più brevi rispetto alla psicoterapia tradizionale e senza limitarsi a quella che potrei definire come “terapia dell’ascolto”.
Dott.ssa Elisa Scala, medico psicoterapeuta a Novara