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La sindrome di Stoccolma può essere definita, in termini semplici, come la sindrome della vittima che si innamora del carnefice, o che comunque inizia a provare affetto o a manifestare comportamenti protettivi nei suoi confronti.

Senza dubbio rappresenta una particolarità della psiche umana, soprattutto alla luce del fatto che agisce sostanzialmente contro natura, dal momento che mina alla base l’istinto fondamentale di sopravvivenza e che mette potenzialmente a repentaglio l’incolumità della persona.

È possibile descriverla come un particolare tipo di dipendenza psicologico-affettiva che si innesca in seguito ad episodi di violenza o abuso fisico, verbale o anche emotivo.

Invece di allontanarsi e mettere subito delle sane distanze da una situazione abusante e pericolosa, la vittima ne rimane ancora più legata emotivamente, prolungando e potenziando la sua esposizione al pericolo.

Nell’articolo esploreremo cos’è la sindrome di Stoccolma, approfondendo in particolare la sua origine, il significato, i suoi sintomi e le complesse dinamiche psicologiche che di solito nasconde, ma anche le modalità con cui si può manifestare soprattutto nell’ambito di una relazione sentimentale.

Vedremo quindi le principali declinazioni di questa dinamica, come la sindrome di Stoccolma domestica e in amore, oltre ad un esteso approfondimento sulla psicologia della vittima e sui 6 punti principali per uscire da questo ruolo ambivalente.

Cos’è la sindrome di Stoccolma? Significato e origine

La sindrome di Stoccolma deriva il suo nome dallo psichiatra e criminologo svedese Nils Bejerot, che ha studiato in maniera approfondita ciò che successe nella capitale svedese il 23 agosto 1973.

In quella data un gruppo di persone prese in ostaggio in una banca di Stoccolma iniziò incredibilmente a sviluppare sentimenti di empatia, simpatia e addirittura affetto nei confronti dei propri rapitori.

L’evento si è protratto per un interminabile periodo di sei giorni. Nonostante i rapitori non fossero certo persone amichevoli o compassionevoli, le vittime sembravano aver sviluppato una sorta di connessione emotiva con i propri aggressori.

Durante il periodo di prigionia, i dipendenti della banca furono sottoposti a vari soprusi, violenze, maltrattamenti e minacce di morte. In ogni caso, quando finalmente questa esperienza traumatica volse al termine e le autorità tentarono di liberare gli ostaggi, essi si opposero attivamente alle operazioni di salvataggio e chiesero persino clemenza per i rapitori.

Questo comportamento delle vittime estremamente atipico attirò l’attenzione dei media e degli studiosi, che iniziarono ad esaminare e analizzare il fenomeno.

Da allora, il termine è stato ampiamente utilizzato per descrivere una dinamica simile che si verifica in una vasta gamma di relazioni in cui la vittima sviluppa sentimenti di affetto, simpatia o perfino amore nei confronti dell’aggressore o della persona che ha esercitato una qualche forma di sopraffazione fisica o psicologica.

Questa sindrome si manifesta principalmente in situazioni di potere squilibrato e di coercizione emotiva, in cui la vittima è soggetta ad una prevaricazione continuativa e si sente spesso del tutto impossibilitata a difendersi.

È importante comunque sottolineare che il complesso di Stoccolma non si innesca in automatico in tutte le situazioni di ostaggio o abuso, ma rimane una risposta psicologica anomala che può emergere in determinate circostanze di potere asimmetrico e di vessazione emozionale.

Sindrome di Stoccolma, casi famosi

La sindrome di Stoccolma è diventata nota al grande pubblico attraverso alcuni casi celebri che hanno catturato l’attenzione mediatica.

Uno dei più noti è il rapimento della giovane ereditiera Patricia Campbell Hearst nel 1974 da parte del gruppo armato Symbionese Liberation Army (Esercito di Liberazione Simbionese), un vero e proprio gruppo di guerriglia urbana. Durante il lungo periodo di prigionia (591 giorni in totale), Hearst non solo sviluppò un legame con i suoi rapitori, ma finì per aderire alle loro idee e unirsi attivamente a loro nelle attività criminali, diventando un simbolo vivente della sindrome di Stoccolma.

Un altro caso famoso è quello di Natascha Kampusch, rapita in Austria da Wolfgang Přiklopil il 2 marzo 1998 all’età di dieci anni e tenuta prigioniera per circa otto anni. Nonostante le terribili condizioni di reclusione, la giovanissima Kampusch mostrò in seguito una sorprendente comprensione ed empatia per il suo rapitore. Ha ripetutamente dichiarato che, nonostante avesse avuto diverse possibilità di fuggire, ha preferito rimanere con il suo aguzzino.

Sindrome di Stoccolma, sintomi principali

Come abbiamo visto per il significato e l’origine della sindrome di Stoccolma, i sintomi più importanti che ci consentono di iniziare a tracciare un quadro sono:

  1. Anomala empatia verso l’aggressore. Le vittime sviluppano una sorta di comprensione e affetto nei confronti del rapitore, spesso identificandosi con le loro motivazioni o giustificando le loro azioni. A volte si parla anche di sindrome di chi ama il proprio carnefice, soprattutto nella sindrome di Stoccolma in amore.
  2. Paura della punizione. Le vittime temono in genere rappresaglie o danni maggiori se cercano di sfuggire o chiedere aiuto (di per sé questa è una dinamica comune in una situazione di questo tipo).
  3. Ottimizzazione delle risorse limitate. In situazioni di ostaggio, le vittime possono cercare di minimizzare il conflitto o il disagio, cercando di essere cooperative per garantire la sopravvivenza (in condizioni ordinarie, questo comportamento è in linea con l’istinto base dell’essere umano).
  4. Negazione delle emozioni negative. Le vittime possono reprimere o minimizzare le proprie emozioni negative, spesso per evitare di scatenare ulteriori reazioni aggressive da parte del rapitore.
  5. Vincoli affettivi. Le vittime possono sviluppare un vero e proprio attaccamento emotivo nei confronti del rapitore, percependolo come una figura protettiva o addirittura positiva.
  6. Costruzione di una difesa psicologica. Il complesso di Stoccolma può essere considerata una sorta di meccanismo di difesa, in cui le vittime cercano di adattarsi a una situazione estremamente stressante.

È importante comunque sottolineare che il complesso di Stoccolma è un fenomeno multisfaccettato che si può manifestare in modo differente da persona a persona.

[Breve approfondimento] Il ruolo della vittima nell’Analisi Transazionale

Prima di procedere oltre con la trattazione di questa sindrome, e anche con lo scopo di comprenderla più a fondo, voglio soffermarmi brevemente sul significato di fare la vittima e sulla sua particolare psicologia.

Secondo l’analisi transazionale, il concetto di “ruolo della vittima” è strettamente collegato al modo in cui le persone si relazionano e comunicano tra di loro.

L’analisi transazionale identifica tre stati dell’Io che emergono nelle interazioni sociali: il genitore (normativo o affettivo), l’adulto e il bambino (adattato o ribelle). Vi è poi una precisa specularità sull’asse genitore normativo-bambino adattato e genitore affettivo-bambino ribelle. Una figura genitoriale più permissiva e accudente lascia più spazio agli aspetti di disubbidienza del bambino.

Un altro aspetto interessante riguarda i ruoli di vittima, carnefice (o persecutore) e salvatore (o soccorritore), descritti come tre modalità comportamentali che possono emergere nelle relazioni interpersonali. Queste parti sono legate ai tre stati dell’io elencati sopra e rappresentano i tre vertici del triangolo di Karpman, conosciuto anche come triangolo drammatico di Karpman.

Il triangolo serve a mappare i ruoli ingaggiati nella situazione conflittuale, determinando in questo modo anche i particolari equilibri del potere.

Si tratta infatti di tre profili coinvolti in un conflitto intenso tra di loro, ma è proprio questa lotta che li tiene uniti, dando vita a dinamiche in cui i ruoli possono anche cambiare a seconda delle circostanze esterne.

In questo contesto, la psicologia della vittima fa specifico riferimento all’aspetto bambino dell’io. Quando una persona assume questo ruolo, tende a comportarsi in modo passivo, impotente e dipendente, sottolineando la propria incapacità di affrontare o risolvere i problemi. Questo può essere accompagnato da una ricerca di attenzione, compassione o protezione da parte degli altri.

Le persone che assumono il ruolo della vittima spesso si sentono impotenti e vulnerabili, arrivando ad attribuire agli altri la responsabilità delle proprie difficoltà o sfortune. Possono ricorrere a comportamenti passivi-aggressivi o manipolatori per ottenere ciò che desiderano, cercando di attirare simpatia o supporto dagli altri. Questa dinamica può facilmente alimentare un circolo vizioso in cui la persona si sente sempre più inerme e incapace di prendere il controllo della propria vita.

È importante sottolineare che l’acquisizione del ruolo della vittima può essere una strategia inconscia per evitare la responsabilità personale e mantenere uno status di dipendenza.

Il primo passo è sempre quello di aiutare le persone a diventare consapevoli dei propri ruoli, copioni e modelli di comportamento per poter sviluppare uno stato dell’io adulto più autonomo e responsabile.

La particolare psicologia della vittima: perché torna dal suo aguzzino?

Uno degli aspetti più intriganti e complessi di questa sindrome è il fatto che la vittima può tornare o rimanere accanto al proprio aguzzino nonostante il grave illecito subito.

Questo fenomeno può sembrare controintuitivo e difficile da comprendere per chi osserva da fuori. In ogni caso, è importante riconoscere che il coinvolgimento della vittima nella dinamica della sindrome di Stoccolma è spesso il risultato di un insieme di fattori psicologici complessi.

Una ragione fondamentale per il ritorno della vittima è la dipendenza affettiva che si sviluppa nel corso della relazione. L’aguzzino può creare un ambiente di controllo, manipolazione e instabilità emotiva, che rende la vittima dipendente dalla presenza e dalla conferma che in qualche modo arriva dall’aggressore. Oltre a ciò, ad intermittenza possono esserci addirittura momenti di gentilezza da parte del carnefice, che finiscono per alimentare nella vittima la speranza che la situazione possa migliorare.

La vittima può anche più che ragionevolmente temere le conseguenze negative se tenta di allontanarsi, come ulteriori minacce o violenza.

Un ulteriore aspetto da non trascurare nel complesso di Stoccolma è una distorsione della percezione della realtà da parte della vittima. A causa dell’abuso continuato, quest’ultima può infatti iniziare ad identificarsi con l’aguzzino o ad accettare le giustificazioni e le scuse fornite per il suo comportamento. La conseguenza di ciò può portare ad una minimizzazione della prevaricazione e ad una negazione della gravità della situazione, quantomeno finché questa rimane in essere.

Il particolare ruolo della vittima nella sindrome di Stoccolma è quindi il risultato di un complesso intreccio di fattori psicologici, tra cui la dipendenza emotiva, la manipolazione dell’aguzzino, la paura delle conseguenze e la distorsione della percezione della realtà.

Sindrome di Stoccolma in amore: quando la relazione diventa una prigione emotiva

Come è facile intuire, la sindrome di Stoccolma trova forse la sua espressione apicale all’interno di una relazione amorosa. Quando la dinamica dell’abuso si intreccia intimamente con il legame affettivo, si crea una vera e propria prigione emotiva in cui la vittima si sente intrappolata ma da cui in realtà fa di tutto per non uscire.

In una relazione caratterizzata da questa sindrome, il partner violento o abusante può utilizzare svariati mezzi per mantenere il controllo sulla vittima. Tra quelli più comuni ci sono minacce, manipolazioni psicologiche, isolamento sociale, critiche costanti, umiliazioni e anche violenze fisiche. La vittima si trova spesso costretta a vivere in uno stato di paura costante, incertezza e bassa autostima.

La sindrome di Stoccolma in amore presenta alcune caratteristiche distintive e per certi versi estremizzate:

  1. Vittima che si innamora del carnefice. Qui possiamo arrivare a parlare di sindrome di chi ama il proprio carnefice. La vittima nutre sentimenti di compassione e comprensione nei confronti del partner prevaricatore e persecutore. Questo può derivare dalla speranza mai del tutto sopita che l’aggressore possa cambiare o dalla paura di perderlo, o anche da una combinazione dei due aspetti.
  2. Irrazionalità dei sentimenti. Nonostante il partner abusante, in genere l’uomo, provochi dolore e sofferenza, la vittima può continuare a provare sentimenti di amore e affetto nei suoi confronti, aggravando la propria situazione di dipendenza psicologica. Questo evidente contrasto tra il comportamento dannoso e i sentimenti positivi può causare confusione, disorientamento e senso di colpa nella vittima.
  3. Negazione e minimizzazione dell’abuso. La vittima arriva a negare o minimizzare la sopraffazione subita, cercando di giustificare o razionalizzare il comportamento dell’aggressore. Se manifestato con questa modalità, può diventare un meccanismo di difesa per mantenere intatto il rapporto.
  4. Paura di uscire dalla relazione. Nonostante il sopruso vissuto, la vittima può sperimentare una forte paura di chiudere il rapporto, come invece sarebbe del tutto logico in presenza di una violenza grave e ripetuta. Questa dinamica può essere legata alla dipendenza emotiva, alla manipolazione da parte dell’aggressore o alla mancanza di fiducia nelle proprie risorse.

La vittima può addirittura nutrire l’illusione che il suo aguzzino possa cambiare, che l’amore o l’affetto occasionalmente mostrati siano genuini e che la felicità sia ancora possibile all’interno di quella relazione.

Nella sindrome di Stoccolma in amore, il carnefice manipola la vittima facendola addirittura sentire colpevole o responsabile per la violenza subita, spingendola a credere che sia lei stessa il problema o che tutto sommato meriti quel trattamento. La manipolazione psicologica può rendere estremamente difficile per la vittima riconoscere la sopraffazione e cercare quindi aiuto all’esterno.

Sindrome di Stoccolma e narcisismo

Il narcisismo è caratterizzato da un eccessivo amore per sé stessi e da un vero e proprio culto per la propria immagine, associato ad una ricerca costante di ammirazione e da una sostanziale mancanza di empatia verso gli altri.

Le persone con tratti narcisistici della personalità tendono ad avere un’alta opinione di sé e si aspettano di essere trattate come speciali e superiori agli altri. Sono spesso attratte dal successo e dal potere, risultando in genere inclini a sfruttare gli altri per raggiungere i propri obiettivi.

Il narcisismo può manifestarsi in vari gradi, da un livello tutto sommato sano e adattivo presente in molte persone fino ad arrivare al vero e proprio disturbo narcisistico di personalità, che comporta un’eccessiva preoccupazione per sé stessi e un marcato squilibrio nelle relazioni interpersonali.

Quando il narcisismo si associa alla sindrome di Stoccolma si viene a creare una situazione in cui l’aguzzino fa particolare leva sul desiderio della vittima di essere accettata e amata.

L’aguzzino narcisista è in grado di utilizzare tattiche manipolatorie ancora più sfacciate per mantenere il controllo sulla vittima. In genere risulta estremamente abile nell’incantare e sedurre la vittima, alimentando la sua dipendenza emotiva e il bisogno di riconoscimento da parte del carnefice.

Il carnefice narcisista è abile a sfruttare il desiderio della vittima di piacere, cercando costantemente di ottenere ammirazione e adorazione.

La vittima arriva facilmente a provare una vera e propria sudditanza emotiva nei confronti dell’aguzzino narcisista, sperando che l’amore e l’approvazione promessi possano finalmente vedere la realizzazione.

Il narcisismo, quindi, non fa altro che potenziare le dinamiche di dipendenza che caratterizzano la sindrome di Stoccolma, ammaliando e affascinando la vittima e rendendole ancora più difficile in primis riconoscere l’impalcatura di manipolazione e poi eventualmente lavorare per liberarsene.

Sindrome di Stoccolma domestica

La sindrome di Stoccolma domestica è una forma specifica di abuso emotivo che si verifica all’interno di un contesto familiare o domestico.

Si sviluppa quando una persona diventa vittima di sopraffazioni da parte di un familiare o di un partner intimo, finendo per sviluppare un legame affettivo e di sottomissione nei confronti dell’aguzzino.

Questo tipo di sindrome può presentarsi in situazioni di violenza domestica, sopruso emotivo o abuso sessuale, o anche di semplice negligenza cronica.

Presenta molti punti in comune con quello che abbiamo già visto per le relazioni amorose, variando in gravità e intensità a seconda del grado di parentela o amicizia che intercorre con il carnefice nell’ambito delle mura domestiche.

Sindrome di Stoccolma sul lavoro

La sindrome Stoccolma sul lavoro è una particolare declinazione in cui un dipendente sviluppa un legame emotivo o un’identificazione con il suo titolare o con un superiore che si comporta in modo abusivo, manipolatore o che comunque crea un ambiente di lavoro tossico.

In questi casi, il dipendente può sviluppare un senso di lealtà innaturale verso il proprio datore di lavoro, difendendo o giustificando il suo comportamento negativo e tutti i maltrattamenti subiti. Lo scopo è sempre la tutela del benessere e la sopravvivenza dell’organizzazione. La vittima può provare ansia o paura di subire conseguenze negative se si allontana o cerca di porre fine alla situazione.

La sindrome di Stoccolma sul lavoro può creare uno stress significativo e compromettere seriamente l’equilibrio psicologico del dipendente, fino a logorarlo emotivamente. È importante riconoscere questa dinamica e cercare supporto quanto prima per rompere il circolo vizioso e ripristinare un ambiente di lavoro sano e rispettoso.

La sindrome di Stoccolma: psicologia del paradossale

Come abbiamo visto all’inizio, la psicologia sottesa alla sindrome di Stoccolma è davvero complessa e non immediata da comprendere nelle sue motivazioni proprio per il fatto che, vista da fuori, cozza con l’innato istinto di conservazione dell’essere umano.

In questa condizione, il desiderio di attirare l’attenzione e la simpatia del sequestratore può spingere la vittima ad identificarsi con lui, cercando di guadagnare il suo favore come strategia inconscia di sopravvivenza e di riduzione della percezione di minaccia.

Questa identificazione significa che la vittima inizia a vedere il mondo, le motivazioni e i comportamenti attraverso la prospettiva dell’aggressore, spesso giustificando o minimizzando le sue azioni. La vittima spera, in questo modo, di creare una connessione emotiva ed ottenere una forma di protezione o indulgenza.

L’identificazione permette di ridurre il senso di impotenza e vulnerabilità, facendole sentire di avere un certo controllo sulla situazione pur cercando, inconsciamente, di attirare l’attenzione e la simpatia del carnefice per aumentare le proprie probabilità di sicurezza e, in fondo, di uscirne viva.

Sindrome di Stoccolma, come uscirne con un percorso terapeutico olistico

La Psicoterapia Medica Olistica mette a disposizione un approccio completo e risolutivo per affrontare la sindrome di Stoccolma, anche quando si manifesta in amore o, più in generale, in un ambito domestico.

Il suo metodo breve e integrato mira a fornire ai pazienti gli strumenti necessari per superare la dipendenza emotiva, ristabilire l’autostima e costruire relazioni interpersonali più bilanciate e soddisfacenti.

In alcuni casi, quando la sindrome può mettere a repentaglio l’incolumità psicofisica del paziente, è necessario intervenire tempestivamente per ripristinare una situazione di sicurezza, prima ancora di affrontare le sue complesse implicazioni psicologiche.

Le due macro-fasi del lavoro psicoterapeutico sono, analogamente ad altre condizioni e disturbi, l’espansione della consapevolezza il più possibile priva dei filtri del giudizio e la successiva opera di integrazione e trasformazione.

Non è possibile superare una dinamica psicologica o una parte di sé che si rifiuta. Il rifiuto stesso continua a far fluire energia verso la parte respinta, legittimandone la sua permanenza e addirittura finendo con il potenziarla.

In ogni caso, soprattutto quando la dinamica disfunzionale si accompagna ad una quantità di dolore importante, questo lavoro risulta molto più difficile e va svolto per gradi in presenza di uno psicoterapeuta olistico capace di gestire tutto ciò che emerge.

Come uscire dal ruolo ambivalente della vittima?

Nella sindrome di Stoccolma il desiderio di attirare l’attenzione e la simpatia del proprio aguzzino può portare la vittima a sviluppare un legame emotivo con lui, arrivando a giustificare i suoi comportamenti e a vedere il carnefice come una figura protettiva anziché minacciosa.

Uscire dalla psicologia della vittima in questa condizione e nella vita in generale richiede un processo di guarigione e trasformazione personale. Anche se è sicuramente un percorso impegnativo, è possibile rompere il ciclo dell’abuso e ricostruire relazioni interpersonali più sane e bilanciate.

Vediamo adesso i 6 punti più importanti del lavoro da svolgere per porre termine a questo ruolo disfunzionale:

  1. Presa di consapevolezza. Come per tutte le altre condizioni psicologiche, il primo passo fondamentale è diventare consapevoli della propria situazione e riconoscere che si è intrappolati in una dinamica di abuso. Data la particolare natura della sindrome della vittima, questo passaggio richiede coraggio e onestà verso sé stessi. Accettare di essere vittime, e di spendere parte delle proprie energie psichiche per rimanere in questo ruolo, è comunque un punto di partenza cruciale per intraprendere il percorso di guarigione.
  2. Cercare un supporto qualificato. Dopo la consapevolezza del problema, il passaggio successivo è cercare il supporto di professionisti qualificati, come uno psicoterapeuta olistico, che lavora sulla persona in una visione completa e integrata. L’abuso emotivo è sempre associato ad una certa quantità di dolore, e va affrontato in un ambiente protetto e privo di giudizio.
  3. Lavorare sull’autostima. La sindrome di Stoccolma può minare l’autostima e la fiducia in sé stessi, ma può anche essere la conseguenza stessa di una visione di sé depotenziante e svilente. Una bassa autostima espone la persona a situazioni potenzialmente delicate, oltre a rendere più sfiancante il semplice stare nel mondo. Puoi vedere l’autostima come un fossato intorno al proprio castello personale: un’immagine di sé debole e svilente è equivalente all’assenza del fossato, esponendo le mura a facili assalti. Grazie ad un’autostima sana, è possibile abbracciare le proprie fragilità e debolezze emotive, come ho spiegato nell’articolo sul kintsugi psicologia e ferite emotive. Il processo può coinvolgere il riconoscimento dei propri punti di forza, la definizione di obiettivi personali e l’adozione di pratiche di cura di sé.
  4. Rielaborazione dei traumi. Il complesso di Stoccolma può lasciare cicatrici emotive profonde, così come la dinamica stessa di abuso che l’ha innescata. È cruciale lavorare sulla rielaborazione delle informazioni traumatiche immagazzinate nella memoria neurale attraverso modalità di intervento come la terapia EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing). Questa tecnica consente di elaborare e trasformare i ricordi traumatici, liberando la mente da questi pacchetti di informazioni non rielaborate.
  5. Costruire una rete di supporto. Circondarsi di persone positive e di fiducia è essenziale nel percorso di uscita dalla sindrome della vittima. Soprattutto nei casi in cui vi è un forte dolore emotivo, disporre di un ambiente sicuro e accogliente in cui condividere le esperienze, trovare conforto e ricevere incoraggiamento è un tassello molto importante.
  6. Sviluppare una visione autentica di sé. L’immagine di sé gioca un ruolo determinante nell’autostima e nella creazione della cosiddetta zona del possibile. È importante tornare ad avere una visione autentica di sé stessi, al di là del ruolo di vittima che, appunto, rimane solo un ruolo che può essere rimpiazzato. Questo può coinvolgere l’esplorazione delle proprie passioni, interessi e, cosa ancora più importante, della scala di valori personali.

L’uscita dal ruolo della vittima nella sindrome di Stoccolma ha come risultato finale un rafforzamento della struttura psicologica della persona e l’eliminazione di una serie di ganci psichici pericolosi che il carnefice utilizzava per manipolarla e tenerla legata a sé anche emotivamente.


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Foto professionale della Dott.ssa Elisa Scala, medico psicoterapeuta a Novara
Ricevo a Novara e online

Medico psicoterapeuta

Sono iscritta all’Albo Professionale dei Medici dall’anno 2008 ed esercito la professione di Psicoterapeuta sia per mezzo di sedute online (via Zoom o Skype) che in presenza nel mio Studio privato vicino al centro storico di Novara.

Perché rivolgersi ad un medico psicoterapeuta?

Grazie alla sua duplice formazione medica e psicoterapeutica, un medico psicoterapeuta è in grado di valutare il paziente non solo dal punto di vista meramente psicologico, ma anche di considerare eventuali fattori biologici, medici e farmacologici che possono influenzare il disturbo, conflitto interiore o disagio portato dal paziente.

Questo permette una presa in carico olistica, in cui si possono trattare problematiche emotive, psichiche e fisiche in modo sinergico, personalizzando il percorso terapeutico per ottenere risultati più efficaci e duraturi.

I vantaggi tangibili per il paziente consistono in tempi mediamente più brevi rispetto alla psicoterapia tradizionale e senza limitarsi a quella che potrei definire come “terapia dell’ascolto”.

Dott.ssa Elisa Scala, medico psicoterapeuta a Novara