Le persone autodistruttive tendono a mettere in atto comportamenti che, in modo diretto o indiretto, compromettono il loro benessere fisico, emotivo e psicologico.
Questi atteggiamenti possono manifestarsi in diverse forme: dall’abuso continuativo di sostanze all’autosabotaggio delle relazioni sentimentali, fino al mettersi i bastoni tra le ruote da soli in ambito professionale e impedendosi di raggiungere posizioni migliori.
Comprendere le radici di tali comportamenti è essenziale per sviluppare strategie efficaci di intervento e guarigione.
Secondo la psicologia, l’autodistruzione può essere il risultato di esperienze traumatiche, stili di attaccamento insicuri sviluppati durante l’infanzia e schemi mentali disfunzionali che si cristallizzano nel tempo, mettendo radici in noi e diventando poi molto difficili da modificare.
In questo articolo esploreremo nel dettaglio le caratteristiche delle persone autodistruttive, le cause sottostanti e la psicologia che sta dietro, i principali tipi di comportamenti autodistruttivi e le possibili soluzioni offerte da un approccio terapeutico olistico.
Cosa significa essere una persona autodistruttiva?
Le persone autodistruttive vivono in un costante stato di conflitto interiore.
Da un lato desiderano migliorare la propria condizione o comunque vivere un’esistenza gratificante, ma dall’altro mettono in atto comportamenti che sistematicamente ostacolano questo processo. Qualcosa dentro di loro, tanto impalpabile quanto potente, rema loro contro e ne tormenta la quotidianità.
Questo tipo di atteggiamento può assumere forme diverse, ma tutte hanno in comune l’inconsapevole tendenza a sabotare capillarmente il proprio equilibrio interiore ed il proprio appagamento.
Le persone autodistruttive sono caratterizzate da schemi mentali negativi ben consolidati che possono includere:
- Pensiero dicotomico. Vedere le situazioni in termini estremi, senza sfumature intermedie.
- Catastrofismo. Aspettarsi sempre il peggio in qualunque circostanza, anche leggera o di svago.
- Bassa autostima. Sentirsi costantemente inadeguati e non degni di amore o successo.
Non dobbiamo dimenticare, a questo proposito, che un comportamento autodistruttivo può essere definito contro natura perché si oppone all’istinto di sopravvivenza, il principio biologico fondamentale che spinge ogni essere vivente a preservare la propria vita e a cercare il migliore stato possibile.
Queste condotte, invece di rafforzare e proteggere l’individuo, lo indeboliscono fisicamente, emotivamente e psicologicamente, andando contro il naturale equilibrio dell’organismo.
Anche se spesso nascono come strategie per tenersi lontani da un dolore profondo o da un conflitto emotivo, finiscono per perpetuare la sofferenza e privare la persona di quella forza vitale necessaria a crescere e superare le difficoltà.
La genesi nascosta delle persone autodistruttive: quando il bambino diventa il “cattivo” e assume su di sé la colpa
Se un bambino si trova a crescere all’interno di un ambiente in cui le figure genitoriali o di accudimento (caregiver) non rispondono adeguatamente ai suoi bisogni fondamentali, essendo eccessivamente critiche, emotivamente assenti, rifiutanti, abusanti o incoerenti, finirà per sperimentare una profonda angoscia.
Per un bambino, la relazione con i genitori non è solo una fonte di affetto: è una questione di sopravvivenza a tutti gli effetti.
La sua vita dipende totalmente da chi si prende cura di lui.
Non può rinunciare in alcun modo e per nessuna ragione al mondo al rapporto con i suoi caregiver.
Per questo motivo, il bambino è spinto a fare tutto ciò che è necessario per preservare il legame con loro, anche a costo di sacrificare sé stesso.
Perché il bambino arriva a prendere la colpa su di sé?
Un bambino non è in grado di concepire che i genitori (figure che negli anni dell’infanzia rappresentano il mondo intero per lui) possano essere “cattivi”, inadeguati o non all’altezza dei suoi bisogni.
Accettare questa realtà sarebbe troppo destabilizzante perché significherebbe percepirsi in un mondo non sicuro, privo delle necessarie protezioni.
Dal momento che il bambino non ha le risorse cognitive ed emotive per attribuire le difficoltà relazionali ai genitori, l’unica soluzione per dare un senso al conflitto è compiere un adattamento psicologico inconscio: prendersi lui la colpa per ciò che non funziona nel rapporto.
In altre parole, il bambino pensa: “Se c’è un problema, allora devo essere per forza io il problema”.
La dinamica di repressione della rabbia e la strutturazione dell’auto-punizione
In questo processo i sentimenti naturali di rabbia o protesta verso il genitore (perché troppo severo, assente o inadeguato) vengono repressi. Esprimerli, infatti, metterebbe a rischio il legame di attaccamento.
La rabbia repressa viene poi trasformata in colpa e diretta contro sé stessi.
L’autopunizione diventa così il “giusto prezzo” per mantenere la relazione.
Questo meccanismo svolge due funzioni fondamentali:
- Salvataggio del legame con i genitori. Il bambino può continuare a preservare un’immagine idealizzata dei genitori come buoni ed amorevoli, una convinzione essenziale per sentirsi al sicuro.
- Illusione di avere il controllo. Assumendosi la colpa, il bambino si illude di avere un certo potere sulla situazione: “Se sono io il problema, allora posso cambiare e far sì che i miei genitori mi amino di più”. Questa illusione dà al bambino un senso di speranza, per quanto totalmente inconsistente.
L’intensa rabbia repressa verso i genitori si scontra con la colpa inconscia per avere sentimenti negativi verso di loro, generando ulteriore dolore emotivo.
Gli stili di attaccamento infantili come nucleo di cristallizzazione dei comportamenti autodistruttivi
Gli stili di attaccamento sviluppati durante l’infanzia giocano un ruolo cruciale nel determinare la tendenza all’autodistruzione.
Secondo la teoria dell’attaccamento, un legame sicuro con le figure di riferimento permette di sviluppare un senso di sicurezza interiore, mentre uno stile di attaccamento insicuro crea un humus particolarmente fertile per lo sviluppo di insicurezze e comportamenti autodistruttivi.
Sono state descritte, in particolare, tre tipologie di stile insicuro:
- Attaccamento insicuro-evitante. Le persone cresciute con questo stile di attaccamento tendono ad evitare l’intimità e a reprimere le proprie emozioni, sviluppando comportamenti autodistruttivi per gestire l’ansia.
- Attaccamento ansioso o insicuro-ambivalente. In questo caso, l’individuo oscilla tra il desiderio incessante di vicinanza e contatto e la paura di essere abbandonato, alimentando dinamiche relazionali tossiche e fluttuanti.
- Attaccamento disorganizzato. Caratterizzato da un intreccio di paura del rifiuto e desiderio di vicinanza, è lo stile più correlato a comportamenti autodistruttivi estremi.
Alla luce di quello che abbiamo appena visto, non vi è dubbio che un attaccamento infantile insicuro getti le basi di tutta una serie di problematiche in età adulta che possono risultare anche parecchio difficili da affrontare e correggere.
Di seguito possiamo anche vedere in forma tabellare la correlazione esistente tra gli stili di attaccamento e i comportamenti disfunzionali più comuni.
Stile di attaccamento | Comportamenti autodistruttivi correlati |
---|---|
Sicuro | Bassa probabilità di comportamenti autodistruttivi |
Insicuro-evitante | Evitamento delle relazioni, repressione emotiva |
Insicuro-ambivalente | Relazioni tossiche, fluttuazioni emotive, dipendenza affettiva |
Disorganizzato | Comportamenti estremi, autolesionismo, abuso di sostanze |
Una lettura di cosa accade nell’interiorità del bambino: un esempio concreto di questa dinamica all’opera
Immaginiamo un bambino di 6 anni con una madre emotivamente distante e un padre critico e severo. Quando il bambino cerca conforto dalla madre, lei lo respinge o non risponde in modo empatico. Nel momento in cui invece commette errori, il padre lo rimprovera con frasi come “Sei sempre il solito incapace, non combinerai mai nulla nella vita!”.
Di fronte a queste esperienze, il bambino sentirà facilmente una profonda rabbia e frustrazione, ma queste emozioni vengono represse perché percepite come troppo pericolose.
Come principio generale, ogni istanza emotiva avvertita come destabilizzante, insidiosa o ingestibile per qualunque ragione viene prontamente rimossa dal radar della coscienza.
Mostrare rabbia verso i genitori potrebbe mettere a rischio il legame con loro e portare al tanto temuto trauma da abbandono.
Per questo motivo, invece di riconoscere che è il comportamento dei genitori ad essere inadeguato, il bambino interiorizza l’idea che il problema sia lui stesso.
In pratica, il bambino potrebbe sviluppare pensieri come: “Se mia madre non mi abbraccia quando piango, è perché non sono abbastanza bravo o degno d’amore” e “Se mio padre mi urla contro, è perché sono io a non fare mai le cose giuste”.
Questi pensieri di autocritica si radicano profondamente nella psiche del bambino, portandolo ad interiorizzare una colpa sproporzionata per mantenere l’illusione che i genitori siano buoni e che sia possibile ottenere il loro amore migliorando sé stesso.
I principali comportamenti disfunzionali delle persone autodistruttive
Una volta gettati i semi di questa dinamica, è facile assistere alla cristallizzazione di una serie di comportamenti autodistruttivi una volta arrivati nell’età adulta:
- Abuso di sostanze. L’individuo consuma quantità incontrollabili di alcol, droghe e farmaci come surrogati utili ad evitare di affrontare il dolore emotivo che si porta dentro.
- Autocritica eccessiva. Le persone autodistruttive possono continuare ad incolpare sé stesse per i problemi relazionali o le difficoltà emotive, avendo una voce interna castrante ed invadente che le tormenta e rende loro difficile portare a termine anche le piccole attività quotidiane.
- Rabbia repressa. La rabbia verso i genitori resta sul piano inconscio ma si manifesta in forme indirette, come depressione, ansia o pensieri intrusivi di autodistruzione.
- Autolesionismo. Infliggersi dolore fisico come forma di punizione o per cercare di gestire i picchi di emozioni negative.
- Relazioni tossiche. Entrare e rimanere in relazioni sentimentali dannose o caratterizzate da dinamiche altamente disfunzionali.
- Autosabotaggio professionale. Le persone autodistruttive possono evitare opportunità concrete di crescita lavorativa per paura del fallimento o, al contrario, del successo.
- Sensazione di essere indegno. Il soggetto sente di non meritare amore o felicità, perpetuando schemi di sofferenza e autopunizione o incastrandosi in comportamenti di perfezionismo patologico per cercare di mendicare briciole di approvazione dal mondo esterno, perdendo così anche una buona fetta di potere personale.
- Procrastinazione estrema. La persona rimanda continuamente attività importanti, provocandosi stress negativo, logorio interiore e insoddisfazione.
Come abbiamo visto, il bambino assume la colpa perché questa è la sua unica strategia di sopravvivenza emotiva in quella particolare fascia di età.
L’alternativa, ovvero riconoscere che i genitori non sono capaci di prendersi cura di lui in maniera adeguata, sarebbe davvero troppo dolorosa e destabilizzante.
La colpa diventa quindi un prezzo che il bambino paga per preservare l’illusione di una relazione sicura e di un mondo prevedibile.
È un compromesso psichico che, pur salvandolo nell’infanzia, può intrappolarlo in una spirale infinita di sofferenza una volta raggiunta la maggiore età.
Quando arriva in psicoterapia, il paziente è chiamato ad affrontare insieme al terapeuta la difficile sfida di disinnescare i comportamenti autodistruttivi, riconoscendo che la colpa non è mai stata in realtà sua e che può liberarsi dal peso del passato senza perdere il suo senso di identità.
Passività e incompetenza forzata nelle persone autodistruttive
La passività e l’incompetenza forzata sono due tratti che spesso caratterizzano le persone autodistruttive.
In questo contesto, la passività non va vista come una semplice inattività, ma come una forma di resa psicologica davanti a situazioni che generano sofferenza. Si riconosce il danno arrecato da una determinata circostanza, ma si sceglie di non agire per fermarla o contrastarla.
Questo comportamento può derivare da una storia personale in cui la persona ha appreso, spesso inconsciamente, che ogni tentativo di cambiamento è inutile o persino dannoso.
È una condizione che si manifesta, ad esempio, in chi non riesce a difendersi da abusi o aggressioni, non perché non ne riconosca la gravità, ma perché una parte di sé ha interiorizzato l’idea di non avere potere sull’ambiente circostante.
L’incompetenza forzata, invece, è una sorta di auto-sabotaggio attivo: la persona mette in primo piano le proprie presunte mancanze e limitazioni, usandole come scusa per non affrontare le sfide. È una forma di evitamento, in cui l’energia che potrebbe essere impiegata per migliorarsi o agire viene invece spesa nel rafforzare un’immagine di sé debole e incapace.
Questa dinamica genera un circolo vizioso, in cui la mancata azione alimenta ulteriormente la percezione di inadeguatezza.
Entrambe le modalità sono spesso radicate in un senso di impotenza acquisita, sviluppato come risposta ad esperienze di fallimento, traumi o ambienti altamente controllanti o abusanti durante l’infanzia.
Quando un individuo cresce in un contesto in cui i propri bisogni vengono ignorati o le sue azioni vengono costantemente svalutate, può interiorizzare l’idea di non avere alcun controllo sugli eventi e quindi smettere di tentare di cambiare le cose.
La camera della tortura nelle persone autodistruttive: un meccanismo inconscio di sopravvivenza
Un concetto chiave per comprendere le persone autodistruttive è quello della camera della tortura, una metafora che descrive lo spazio mentale in cui tali individui si rinchiudono, tormentandosi con pensieri negativi, sensi di colpa e autocritica spietata.
Darsi costantemente contro rappresenta per loro un meccanismo punitivo per espiare una colpa immaginaria, spesso radicata in conflitti inconsci di rabbia e amore verso le figure significative del passato, in primis i genitori.
La camera della tortura si struttura nelle prime fasi della vita, quando il bambino dipende completamente dai genitori o dai caregiver per la propria sopravvivenza fisica ed emotiva. Può essere considerata come un luogo psichico sicuro ma doloroso allo stesso tempo.
Il bambino interiorizza le critiche e i giudizi dei genitori sotto forma di un Super-Io punitivo, una delle manifestazioni più rigide e severe del Super-Io, quella struttura della personalità teorizzata da Sigmund Freud che rappresenta l’insieme delle regole, norme morali e valori interiorizzati durante lo sviluppo, soprattutto attraverso l’educazione e le figure genitoriali o autoritarie.
Quando il Super-Io si sviluppa in modo disfunzionale, può assumere una funzione eccessivamente critica e punitiva, contribuendo a creare una forma di dialogo interno particolarmente duro, giudicante e svalutante.
Cosa succede una volta diventati adulti?
Quando, da adulto, il paziente tenta di uscire da questa dinamica autodistruttiva e di rompere con il proprio Super-Io punitivo, emergono inevitabilmente feroci dinamiche di ritorsione.
Queste si manifestano sotto forma di pensieri negativi su di sé, sabotaggi emotivi o veri e propri sintomi somatici, che rappresentano il tentativo della psiche di riportarlo nell’ambiente familiare e “sicuro” della sofferenza e del disagio emotivo come compagno costante.
La colpa resiste con forza perché, per il paziente, è un prezzo da pagare per mantenere l’attaccamento inconscio ai genitori o per evitare di confrontarsi con quella camera magmatica piena di rabbia repressa.
Le persone autodistruttive in psicoterapia sono pazienti ad alta resistenza?
In psicoterapia, un paziente ad alta resistenza è colui che oppone forti barriere al cambiamento, spesso perché teme di perdere una parte di sé o di dover affrontare un dolore profondo che sente di non essere in grado di gestire. Resiste, dunque, ai processi di esplorazione emotiva e di trasformazione, rimanendo legato agli schemi disfunzionali che, per quanto dannosi, gli offrono una forma illusoria di sicurezza, familiarità o controllo su di sé e sulla propria vita.
La persona autodistruttiva, a sua volta, può essere considerata ad alta resistenza se utilizza i comportamenti autodistruttivi come un meccanismo per evitare di entrare in contatto con emozioni dolorose o traumi non elaborati.
L’autodistruzione può essere vista, in tal senso, come una modalità di resistenza mascherata: mentre il comportamento sembra indirizzato verso la distruzione e il dolore, a livello inconscio serve ad evitare qualcosa di ancor più spaventoso.
In questi casi, l’autodistruzione diventa una sorta di “zona di comfort” disfunzionale che protegge la persona dall’ignoto del cambiamento e dal rischio di contattare quel nucleo doloroso originario.
La resistenza al cambiamento, quindi, non si manifesta in modo diretto, ma attraverso comportamenti che sabotano il benessere e impediscono la crescita.
Il lavoro psicoterapeutico su un paziente ad alta resistenza
Come visto sopra, il paziente ad alta resistenza è caratterizzato da una forte difficoltà a lasciarsi coinvolgere pienamente nel processo terapeutico. Questa resistenza può derivare da vari fattori, tra cui esperienze traumatiche passate, un attaccamento insicuro o una diffidenza nei confronti della figura del terapeuta. Questo atteggiamento si traduce, in molti casi, in una tendenza a mantenere il controllo delle proprie emozioni e ad evitare di affrontare temi dolorosi durante le sedute.
Nella psicoterapia con pazienti ad alta resistenza la colpa inconscia, quella che non si vede ma che ha ormai intriso il tessuto psichico della persona, rappresenta uno degli ostacoli più difficili da superare.
Essere un paziente ad alta resistenza implica un rallentamento del percorso terapeutico dal momento che ogni tentativo del terapeuta di introdurre cambiamenti significativi può essere percepito come una minaccia o un’intrusione pericolosa.
Per gestire efficacemente questa dinamica è fondamentale adottare un approccio empatico e rispettoso dei tempi del paziente, creando un clima di fiducia e sicurezza. In questo contesto, la psicoterapia olistica offre sicuramente un valido supporto grazie alla sua capacità di integrare diverse tecniche che facilitano un progressivo allentamento delle difese e una maggiore apertura emotiva.
Il lavoro terapeutico consiste nel riconoscere e disinnescare questa resistenza, aiutando il paziente a tollerare progressivamente il senso di colpa senza cedere agli autoattacchi e a liberarsi gradualmente dall’identificazione con il ruolo di “cattivo” che lo tiene prigioniero nella propria punizione interiore.
Le difficoltà emotive e le dinamiche di evitamento
Un paziente ad alta resistenza presenta diversi problemi di carattere ed anche sintomi di varia natura, ma in genere sul piano cognitivo-percettivo tutto sembra normale.
Non è infrequente, anzi, che le capacità mentali siano superiori alla media, quasi come se la persona si rifugiasse almeno in parte sul piano dell’analisi razionale della realtà che la circonda per evitare il contatto con le proprie correnti emotive.
Alla radice di questo tipo di condizione si annida un trauma derivante da rabbia primitiva, senso di colpa conseguente alla rabbia e dolore emotivo vissuto tra i due e i cinque anni di età, un intervallo davvero critico per questo genere di condizionamento.
Queste emozioni vengono nuovamente mobilitate tutte le volte che vi è una relazione in cui la vicinanza sentimentale si deve confrontare con il fantasma della perdita o di un trauma.
Le difese chiuse a doppia mandata rendono quasi impossibile l’apertura e la conseguente vulnerabilità in un rapporto.
Sul piano inconscio, in queste persone si trovano diversi strati di rabbia sedimentati, sentimenti di colpa ma anche dolore commisurato all’intensità delle difese.
Il soggetto vive quindi in una sorta di prigione, presentando comportamenti di autodistruzione e autosabotaggio che agiscono di continuo.
Il connubio tra forte rabbia e senso di colpa agisce come una morsa che può limitare fortemente la pienezza dell’esistenza di un paziente ad alta resistenza.
In questi casi, la psicoterapia deve seguire un protocollo specifico per accedere ai contenuti repressi dell’inconscio (unlocking) ed attivare la loro rielaborazione in modo sicuro.
Le 5 domande più frequenti sulle persone autodistruttive
Prima di concludere questo articolo, vediamo 5 delle domande frequenti più utili per avere un quadro a 360° sui comportamenti autodistruttivi e su come è possibile disinnescarli senza che facciano troppi danni.
1. Quali sono i segnali di una persona autodistruttiva?
I segnali possono includere autosabotaggio, relazioni tossiche, seria instabilità emotiva, abuso di sostanze, procrastinazione cronica, passività e autolesionismo. Queste persone mostrano spesso un’autocritica asfissiante e una tendenza ad isolarsi.
2. Come si sviluppano i comportamenti autodistruttivi?
I comportamenti autodistruttivi si sviluppano sovente a seguito di esperienze traumatiche, stili di attaccamento infantili di tipo insicuro e modalità di pensiero negative diventate ipertrofiche nel tempo.
3. La psicoterapia olistica è efficace per le persone autodistruttive?
Sì, la psicoterapia olistica è particolarmente indicata proprio perché affronta il problema in modo integrato, lavorando su mente, corpo ed emozioni, prendendo le sue mosse proprio da quel sommerso emotivo che condiziona la nostra vita da dietro le quinte.
L’approccio olistico, in particolare, consente di:
- Riconoscere e trasformare gli schemi mentali disfunzionali che tormentano le persone autodistruttive.
- Lavorare sul trauma psicologico in modo rapido ed efficace.
- Promuovere una maggiore connessione con il proprio corpo e le proprie emozioni.
4. Si può uscire dall’autodistruzione senza terapia?
In alcuni casi è possibile uscire dall’autodistruzione attraverso un intenso lavoro di auto-consapevolezza e cambiamento. In ogni caso, un supporto terapeutico professionale accelera il processo rendendolo più efficace e, soprattutto, stabilizzato nel tempo.
5. Quali sono le tecniche più utili per superare l’autodistruzione?
Le tecniche più utili includono la mindfulness, la psicoterapia, la gestione delle emozioni e il lavoro sul trauma, ad esempio tramite la terapia EMDR. Cambiare le dinamiche relazionali ed il proprio dialogo interno, sviluppando anche una maggiore autostima, sono passi fondamentali.
Se vuoi più informazioni sulla Psicoterapia Medica Olistica oppure prenotare la prima seduta con me, puoi compilare il modulo di contatto che trovi all’inizio della Pagina Contatti.
Medico psicoterapeuta
Sono iscritta all’Albo Professionale dei Medici dall’anno 2008 ed esercito la professione di Psicoterapeuta sia per mezzo di sedute online (via Zoom o Skype) che in presenza nel mio Studio privato vicino al centro storico di Novara.
Perché rivolgersi ad un medico psicoterapeuta?
Grazie alla sua duplice formazione medica e psicoterapeutica, un medico psicoterapeuta è in grado di valutare il paziente non solo dal punto di vista meramente psicologico, ma anche di considerare eventuali fattori biologici, medici e farmacologici che possono influenzare il disturbo, conflitto interiore o disagio portato dal paziente.
Questo permette una presa in carico olistica, in cui si possono trattare problematiche emotive, psichiche e fisiche in modo sinergico, personalizzando il percorso terapeutico per ottenere risultati più efficaci e duraturi.
I vantaggi tangibili per il paziente consistono in tempi mediamente più brevi rispetto alla psicoterapia tradizionale e senza limitarsi a quella che potrei definire come “terapia dell’ascolto”.
Dott.ssa Elisa Scala, medico psicoterapeuta a Novara